TEATRO 7 OFF – MI HANNO RIMASTO SOLO
Di Simona Rubeis
Riproporre uno spettacolo a tanti anni dal suo primo fortunato allestimento, reinventandolo quel tanto che basta per potergli fornire una veste più attuale senza mutarne il solido e convincente assetto originario, richiede consapevolezza, capacità di rinnovarsi, amore per la sfida ed un mix di passione, impegno, ricerca di perfezionismo e spontaneità.
Facendosi espressione di una miscellanea così ampia, Michele La Ginestra decide affrontare la prova e di inaugurare i quarant’anni di carriera aprendo le porte del Teatro 7 Off ad uno dei suoi cavalli di battaglia, «Mi hanno rimasto solo».
Il lavoro è una divertente ed ironica carrellata di personaggi di varia natura, provenienza ed epoca storica il cui comun denominatore è l’appartenenza ad un quadro che, forse molto più di altri, può essere considerato un omaggio all’arte scenica, luogo per eccellenza dei sogni, delle ambizioni, delle paure più timide, delle resistenze svelate, della composizione dell’anima, dell’intrattenimento puro.
La fluidità dei movimenti e la perfetta sincronia delle scene di questo esempio di Varietà contemporaneo sono la conseguenza di un’intensa e paziente finitura, di perizia e di rispetto per un pubblico fedele ed attento.
Quando venne proposto per la prima volta, nel 2003, «Mi hanno rimasto solo» indossava un abito differente. E l’artista romano, che ben conosce gli ingranaggi della macchina teatrale, ha modernizzato il tutto, lo ha attualizzato ed ha infiocchettato gli intermezzi musicali con la presenza del giovane Luca La Ginestra, interprete dei brani di cui è anche autore.
Una sedia, una chitarra, una bella voce e tanta personalità. Ed è ecco che erompe l’effetto alchemico.
Come anticipato, il testo, si innova un po’. Cambia l’incipit, per esempio. Nella sua prima versione, il pretesto palesemente dichiarato per l’avvio della performance era costituito da una costrizione: un attore, nel rievocare il tempo in cui si confrontava con il personaggio di Ciampa de “Il Berretto a sonagli”, rimane chiuso nel teatro ed approfitta della circostanza per recitare a porte chiuse. Si esibisce per il puro piacere di farlo, senza luci, senza applausi, senza aspettative, fantasie soddisfatte o deluse. Solo la magia della recitazione. In fondo, a volte basta quella.
Oggi, invece, il punto di partenza per vestire i vari personaggi che, in sequenza, vengono proposti l’uno dopo l’altro, è diverso, ma non per questo meno efficace.
Il protagonista sale sul palco attraversando la platea di corsa, perché una voce fuori campo lo annuncia con eccessivo anticipo, lo coglie impreparato.
Tanto per cominciare, La Ginestra trae spunto da ciò che più lo disturba, il cellulare che si accende e che squilla nel bel mezzo della rappresentazione, per inscenare un siparietto esilarante durante il quale non manca di lanciare un messaggio al parterre. Parla in generale e, contemporaneamente, si rivolge ad ogni singolo individuo presente che, pur riconoscendosi nelle parole proferite, non si sente accusato. È la pacca sulla spalla data dall’amico, è il compagno che strizza l’occhio.
Michele La Ginestra da questo punto vista è il top, gli va riconosciuto: ci vuole abilità per suscitare la risata su un vizio comune e, contemporaneamente, indurre ogni astante a fare con un sorriso aperto qualcosa che non pensava di volere, come procedere all’attivazione della modalità aereo.
Risultato raggiunto, disconnessione compiuta…che lo spettacolo abbia inizio.
Da vero artigiano del teatro qual è, La Ginestra sa sempre come raggiungere il suo pubblico. Provoca apertamente, veicola i suoi messaggi inserendoli nel non-detto delle sue proposte, interagisce con i presenti, li coinvolge, li fa sentire a casa. E quando serve, nel momento in cui le circostanze impongono di deragliare dalle righe del copione, improvvisa, dando prova di saper gestire il suo one-man-show in tutte le sfumature di cui si colora. Una crescita evidente la sua, che infonde una marcia in più ad un congegno già rodato.
Una parrucca, un naso finto, una lunga barba grigia, un abito talare e via, si lascia pervadere dal gusto di andare oltre. Per cui, passa da Menicacci, la promessa mai mantenuta del calcio italiano, al mondo delle fiabe di cui restituisce una versione a morale invertita.
Divertente e partecipata è la gag dell’uomo affetto da iperosmia olfattiva le cui relazioni sociali sono condizionate dal disturbo e che trova un momento di tregua solo quando è raffreddato; spassosa è la scena incentrata sulla nota figura di don Michele, sacerdote poco convinto della validità del matrimonio e della sua solidità protratta nel tempo.
Centrale come sempre, però, è il commovente saluto al papà. La dedica parte dal cuore e si tramuta un momento di poesia che dispiega le ali per atterrare su un ricordo toccante. Ed arriva diritto lì, nel punto in cui siamo tendenzialmente deboli, nella nostra emotività scoperta e disarmata. E proprio per questo più fragile.
Il lavoro merita, perché con leggerezza rapisce lo spettatore inducendolo a perlustrare il caleidoscopico mondo delle sensazioni e a fluttuare nel suo personalissimo altrove.